venerdì 25 febbraio 2011

L. Palmisano: «Ma quale invasione dell’Italia: costruiamo il futuro qui in Libia»

Leonardo Palmisano

«Ma quale invasione dell’Italia: costruiamo il futuro qui in Libia»
Su internet le paure e la voglia di democrazia delle giovani generazioni

Liberazione 25 febbraio 2011


Il Maghreb è esploso, infine, come non tutti avevano previsto e secondo una direttrice impensabile fino a poco più di due settimane fa. Anche la Libia, che era di sicuro il più solido dei paesi, vede adesso sparire la certezza della tenuta di un sistema economico e politico autocentrato.
Pure, la Libia di Gheddafi canta un altro racconto della rivolta: più degli altri, i rivoltosi libici hanno messo in luce le contraddizioni profonde tra Stato uno autocratico bene inserito nel Mercato mondiale del petrolio e del denaro, e un crescente desiderio di democrazia nei paesi sub occidentali. A differenza della Tunisia e dell’Egitto, Gheddafi ha definito da tempo il suo ruolo sullo scacchiere euromediterraneo come protagonista d’assalto di quote, partecipazioni in holding bancarie e non solo. Questo fatto, conosciuto dai libici per via della forte propaganda del rais, ha cominciato a stridere con le condizioni reali della popolazione, soprattutto laddove essa è più colta e tendenzialmente più libera come a Bengasi. Allora ecco i soccorritori italiani di Gheddafi, Berlusconi e Frattini, interessarsi a malapena delle condizioni dei rivoltosi, ma temere un’invasione di immigrati dal Maghreb, dunque minacciare una chiusura totale delle frontiere se non c’è un intervento dell'Ue. Frattini spara una cifra che varierebbe dai 250 ai 350mila migranti pronti a salire verso l’Italia attraverso i labili confini tunisini, imbarcandosi sulle balancies – le carrette – ormeggiate nei porticcioli. Questo è impensabile e insostenibile per almeno due motivi: non ci sono barche sufficienti, né navi, a spostare un simile contingente di popolazione verso la Sicilia e la Calabria, e non vi è un così forte movimento di gente al confine tra Tunisia e Libia.
Qualche migliaio, forse qualche decina di migliaia approfitta dei contrabbandieri, dei carovanieri che solcano il Sahara, ma non di più. Raggiunti via facebook, questi migranti parlano non di una emergenza umanitaria, ma di un disperato bisogno di libertà, prima che di sicurezza.
Non sono stati cacciati dalle loro case di Zuara o Nalut, per salire verso Zarzis, poi Sfax, passando per Djerba: hanno deciso di spostarsi prima che la repressione li raggiunga perché in Libia regna l’incertezza. Non c’è una leadership riconosciuta tra gli oppositori, e questo è noto alla popolazione. Per questo il rais evoca una regia oscura e straniera, ma non è così, e non può essere così.
Se c’è un regista, beh, si chiama incertezza. Questa incertezza del futuro fa temere più un attacco statunitense che una repressione violenta da parte del raìs in caso di ristabilimento dell’ordine. È paradossale, ma le voci che circolano tra la Libia e la Tunisia sono quelle del timore montante di un intervento di peace keeping che sconvolga ulteriormente i già precari equilibri nell’area meridionale del Mediterraneo. Per questo, ci dicono di non confidare più nel viaggio verso l’Italia come soluzione definitiva, ma come fuga temporanea e per niente gradevole verso un paese alleato del dittatore. La voce dei migranti è quella di nugoli di giovani decisi a uscire dal torpore delle dittature per costruire democrazie nei loro paesi senza che l’Occidente ne esporti i suoi deficitari modelli con il rombo degli aerei e delle bombe.
Temono il roboante sconquasso di una guerra con l’Occidente, perché non si sentono in guerra civile, ma nel giusto di una rivolta che deve scuotere fin nelle fondamenta un sistema quarantennale di potere violento, repressivo, a suo modo fascista. Temono e ce lo dicono, ce lo comunicano con i mezzi del presente: facebook, soprattutto, ma anche mail, sms. «Noi siamo la Libia vera, non lui!», ci hanno urlato in chat, prima del coprifuoco telematico. Prima di una nuova notte oscura nel paese dove a tagliare la cortina dell’oscurantismo del rais sono le fiamme delle molotov del popolo che poco possono contro le affilate lingue di fuoco dei razzi sparati dall’alto sui manifestanti.