Lavoro e precarietà: contro le utopie liberali, riappropriarsi dei tempi di lavoro e di vita
L’applicazione
progressiva dei decreti attuativi del Jobs Act ci regala uno scenario del mondo
del lavoro totalmente avvolto nelle spire della deregulation.
Giunge a compimento un percorso trentennale, che,
dall’abolizione della scala mobile all’inaugurazione della stagione della
concertazione, dal pacchetto Treu alla Legge Biagi, alle direttive di
liberalizzazione del mercato del lavoro operate dai ministri Sacconi, Fornero e
da ultimo Poletti, ha mandato in soffitta gran parte dei diritti conquistati
dalla classe lavoratrice sino a tutti gli anni ’70.
Il risultato è un ribaltamento frontale del
conflitto capitale-lavoro: è ormai evidente che la lotta di classe oggi è
portata avanti dai padroni contro le lavoratrici e i lavoratori.
La libertà di licenziamento è diventata la stella
polare delle politiche aziendali, frutto di governi sempre più proni alle
richieste di Confindustria.
Nel
panorama pugliese abbiamo assistito più volte a ristrutturazioni aziendali che,
lungi dall’essere avversate, ma talora favorite da un governo regionale di
centrosinistra, hanno determinato licenziamenti ed esternalizzazioni di
settori. In particolare le fabbriche metal meccaniche e i grandi centri
commerciali si sono serviti e continuano a servirsi di tali strumenti (e di
tali coperture), per poter incrementare i propri profitti senza garantire
soluzioni alternative a chi resta disoccupato.
OM, Ansaldo, Natuzzi, Ikea, Coop, Mediaworld e
call-center dislocati nelle varie città, per citare dei casi a titolo di
esempio, rappresentano nella nostra provincia le realtà in cui più di tutte la
crisi economica viene fatta pesare esclusivamente sulle spalle dei lavoratori e
delle lavoratrici, onde garantire in ogni caso profitti quanto maggiori
possibili ad imprenditori sempre più spregiudicati.
Ha ormai da anni rilevanza nazionale la crisi che
investe l’Ilva, laddove in troppi ormai vedono solo un conflitto tra lavoro ed
ambiente: a livello politico le risate dell’ex Presidente della Regione col
maggiordomo dei Riva sono la cartina di tornasole di uno stretto rapporto tra
vertici aziendali e politica regionale, che non potrà che intensificarsi con la
recente vittoria di Emiliano alle elezioni regionali.
Il
fronte sindacale non è parso, salvo alcune eccezioni legate a singole vertenze,
capace di reagire alle offensive portate avanti dagli esecutivi: la divisione
tra sindacati confederali, che hanno fatto della contrattazione al ribasso la
propria bussola d’azione, e sindacati extraconfederali, troppo isolati e poco
incisivi, ha pesato fortemente sulla possibilità di incidere nella realtà.
Ha pesato fortemente la volontà politica del più
grande sindacato italiano di astenersi dalla pratica dello sciopero generale,
pratica di lotta a cui sono ricorsi tutti i sindacati europei, e con risultati
non del tutto trascurabili.
Volontà politica di non andare addosso ad un
“governo amico”, che determina anche una forte spoliticizzazione dei e delle
iscritte, spesso più per convenienze e per convenzioni coi caf, che per
adesione ad un progetto politico - sindacale. Adesione politica che viene meno
anche nei confronti delle realtà della sinistra radicale da sempre impegnata,
talora a parole, più raramente nei fatti, nella difesa dei loro posti di lavoro
e dei loro diritti.
Pur tuttavia assistiamo a fenomeni di
auto-organizzazione dei lavoratori e della lavoratrici, in particolare in
contesti lavorativi legati alla logistica, in particolare tra l’Emilia-Romagna
e la Toscana, che paiono avere un respiro politico più ampio e riuscire a
“portare a casa” diverse vertenze: in essi la creazione di un’associazione
para-sindacale ha permesso a compagni e compagne di varcare le soglie dei
cancelli di fabbriche ed aziende.
D’altra parte l’esperienza dello sciopero sociale
ha fatto emergere il problema della irappresentabilità di alcuni settori del
mondo del lavoro nella struttura del sindacato categoriale.
Lungi dall’esaltazione o dalla demonizzazione di
un modello piuttosto che dell’altro, riteniamo che il quadro attuale sia, con
le dovute differenze, molto simile a quello che investiva il mondo del lavoro a
cavallo del XIX e del XX secolo: le realtà politiche e sindacali realmente
conflittuali ancora presenti sono sfilacciate sui territori e dotate di poco
coordinamento nei livelli intermedi.
E’ per questo che riteniamo che l’istituzione di
Camere del Lavoro sia un viatico che possa permettere l’unità delle lotte da
parte di lavoratrici e lavoratori, a partire dal livello locale: l’affiancare
servizi fiscali quali quelli offerti da un caf, all’assistenza legale, ad
associazioni para-sindacali o sindacali del tutto ci sembra la chiave per
offrire una copertura a tutto tondo a chi è impegnato nella difesa del proprio
posto di lavoro.
Occorre ovviamente che in tali strutture compagni
e compagne del nostro partito siano attivi e militanti e che esercitino un
ruolo di unione delle vertenze, sull’esempio di esperienze quali quelle di
Livorno e di Napoli.
Riteniamo
pericoloso ogni scivolamento che porti ad una “categorializzazione” dei
lavoratrici e lavoratori, spesso preludio ad una divisione degli stessi:
riteniamo lavoratori e lavoratrici tutte e tutte, tanto disoccupati e
disoccupate, quanto precari e precarie, sino ovviamente a lavoratori e
lavoratrici dotate di contratti più o meno stabili.
La divisione è il dispositivo di cui si serve la
classe padronale per separare lavoratrici e lavoratori dalle esigenze assai
simili, inserendo loro in compartimenti stagni poco comunicabili.
A tal proposito in Puglia abbiamo assistito,
durante il passato decennio che ha visto il centrosinistra al governo, ad
iniziative “volte a contenere la disoccupazione giovanile” quali “Bollenti
spiriti” e “Ritorno al futuro”.
Oltre a non aver ottenuto tale effetto, tali
bandi, sostanzialmente volti a garantire uno start up a nuovi modelli di
impresa, hanno reso egemonico il fatto che gli unici lavori degni di
finanziamento e di attenzione tanto da parte dei futuri lavoratori e
lavoratrici quanto da settori sempre più ampi della politica siano quelli che
affiancano il fattore creatività a quello della novità.
Ciò determina una squalificazione, agli occhi dei
e delle giovani, dei lavori legati a settori di forte rilevanza locale quali
quelli legati al primo e al secondo settore, avvertiti nel senso comune come
lavori “inferiori”, poco remunerativi e scarsamente gratificanti.
Riteniamo
inoltre che il ragionamento portato avanti dai teorici e dai difensori del
reddito di cittadinanza e di esistenza, rischia, come dimostrano anche
esperienze storiche quali quelle del pacchetto di riforme Hartz IV promosso dal
governo Scrhoeder nei primi anni 2000, di essere controproducente per le lotte
dei lavoratori.
In quel caso il reddito è stato infatti
affiancato dai cosiddetti mini–jobs e midi–jobs, lavori part-time privi di
regolamentazione a favore dei lavoratori. La “garanzia” di un reddito minimo
mensile percepito non ha avuto l’effetto sperato di essere una stampella per le
lotte dei sindacati, bensì ha offerto il fianco ad una maggiore precarizzazione
del lavoro e all’offerta di salari inferiori da parte delle aziende.
Tale modello è quello su cui i giuslavoristi
vicini al governo vogliono lavorare, onde introdurlo nell’agone politico,
incalzando le proposte di instaurazione di un reddito minimo promosse dalla
sinistra radicale e da ultimo dal Movimento 5 Stelle.
Volano
per le lotte potrà invece tornare ad essere invece la linea politica, dal
nostro partito sostenuta in passato, della riduzione dell’orario di lavoro a
parità di salario: la disoccupazione in questo modello di gestione della
società è ormai un dato strutturale e funzionale alla guerra tra poveri, nonché
a nuovi contratti in cui diritti garantiti e salari percepiti risultano essere
sempre più bassi.
Oggi giorno inoltre lavoratrici e lavoratori
passano presso il proprio posto di lavoro quasi sempre più delle 8 ore di
lavoro giornaliere “classiche”.
Registriamo invece, accanto a questo dato, una
crescita cospicua dei profitti delle aziende, che necessitano essere
distribuiti in maniera più equa tra le lavoratrici e i lavoratori che impiegano
se stessi nella produzione di tali ricchezze.
Alla riduzione dell’orario di lavoro potrà
accompagnarsi una liberazione di tempi ed energie che non solo potranno rendere
migliore il livello di vita degli uomini e delle donne, ma anche permettere
loro di poter mettere il proprio tempo di vita liberato a disposizione delle
altre e degli altri, impegnandosi politicamente.
“Lavorare
meno e lavorare tutti” deve tornare ad essere lo slogan di un partito e di una
giovanile che vogliano essere pronte ad intervenire, oseremmo dire “senza
tregua”, nei conflitti capitale – lavoro in corso nel nostro paese.
Tornare a non aver paura di chiamare padrone
colui che opprime lavoratori e lavoratrici, a non aver paura di dire la nostra
in ogni contesto lavorativo, usufruendo di strumenti vecchi e nuovi per
sostenere le lotte e le vertenze, strada per strada, fabbrica per fabbrica.