lunedì 12 ottobre 2015

Lavoro e precarietà: contro le utopie liberali, riappropriarsi dei tempi di lavoro e di vita

Lavoro e precarietà: contro le utopie liberali, riappropriarsi dei tempi di lavoro e di vita

            L’applicazione progressiva dei decreti attuativi del Jobs Act ci regala uno scenario del mondo del lavoro totalmente avvolto nelle spire della deregulation.
Giunge a compimento un percorso trentennale, che, dall’abolizione della scala mobile all’inaugurazione della stagione della concertazione, dal pacchetto Treu alla Legge Biagi, alle direttive di liberalizzazione del mercato del lavoro operate dai ministri Sacconi, Fornero e da ultimo Poletti, ha mandato in soffitta gran parte dei diritti conquistati dalla classe lavoratrice sino a tutti gli anni ’70.
Il risultato è un ribaltamento frontale del conflitto capitale-lavoro: è ormai evidente che la lotta di classe oggi è portata avanti dai padroni contro le lavoratrici e i lavoratori.
La libertà di licenziamento è diventata la stella polare delle politiche aziendali, frutto di governi sempre più proni alle richieste di Confindustria.

            Nel panorama pugliese abbiamo assistito più volte a ristrutturazioni aziendali che, lungi dall’essere avversate, ma talora favorite da un governo regionale di centrosinistra, hanno determinato licenziamenti ed esternalizzazioni di settori. In particolare le fabbriche metal meccaniche e i grandi centri commerciali si sono serviti e continuano a servirsi di tali strumenti (e di tali coperture), per poter incrementare i propri profitti senza garantire soluzioni alternative a chi resta disoccupato.
OM, Ansaldo, Natuzzi, Ikea, Coop, Mediaworld e call-center dislocati nelle varie città, per citare dei casi a titolo di esempio, rappresentano nella nostra provincia le realtà in cui più di tutte la crisi economica viene fatta pesare esclusivamente sulle spalle dei lavoratori e delle lavoratrici, onde garantire in ogni caso profitti quanto maggiori possibili ad imprenditori sempre più spregiudicati.
Ha ormai da anni rilevanza nazionale la crisi che investe l’Ilva, laddove in troppi ormai vedono solo un conflitto tra lavoro ed ambiente: a livello politico le risate dell’ex Presidente della Regione col maggiordomo dei Riva sono la cartina di tornasole di uno stretto rapporto tra vertici aziendali e politica regionale, che non potrà che intensificarsi con la recente vittoria di Emiliano alle elezioni regionali.

            Il fronte sindacale non è parso, salvo alcune eccezioni legate a singole vertenze, capace di reagire alle offensive portate avanti dagli esecutivi: la divisione tra sindacati confederali, che hanno fatto della contrattazione al ribasso la propria bussola d’azione, e sindacati extraconfederali, troppo isolati e poco incisivi, ha pesato fortemente sulla possibilità di incidere nella realtà.
Ha pesato fortemente la volontà politica del più grande sindacato italiano di astenersi dalla pratica dello sciopero generale, pratica di lotta a cui sono ricorsi tutti i sindacati europei, e con risultati non del tutto trascurabili.
Volontà politica di non andare addosso ad un “governo amico”, che determina anche una forte spoliticizzazione dei e delle iscritte, spesso più per convenienze e per convenzioni coi caf, che per adesione ad un progetto politico - sindacale. Adesione politica che viene meno anche nei confronti delle realtà della sinistra radicale da sempre impegnata, talora a parole, più raramente nei fatti, nella difesa dei loro posti di lavoro e dei loro diritti.
Pur tuttavia assistiamo a fenomeni di auto-organizzazione dei lavoratori e della lavoratrici, in particolare in contesti lavorativi legati alla logistica, in particolare tra l’Emilia-Romagna e la Toscana, che paiono avere un respiro politico più ampio e riuscire a “portare a casa” diverse vertenze: in essi la creazione di un’associazione para-sindacale ha permesso a compagni e compagne di varcare le soglie dei cancelli di fabbriche ed aziende.
D’altra parte l’esperienza dello sciopero sociale ha fatto emergere il problema della irappresentabilità di alcuni settori del mondo del lavoro nella struttura del sindacato categoriale.
Lungi dall’esaltazione o dalla demonizzazione di un modello piuttosto che dell’altro, riteniamo che il quadro attuale sia, con le dovute differenze, molto simile a quello che investiva il mondo del lavoro a cavallo del XIX e del XX secolo: le realtà politiche e sindacali realmente conflittuali ancora presenti sono sfilacciate sui territori e dotate di poco coordinamento nei livelli intermedi.
E’ per questo che riteniamo che l’istituzione di Camere del Lavoro sia un viatico che possa permettere l’unità delle lotte da parte di lavoratrici e lavoratori, a partire dal livello locale: l’affiancare servizi fiscali quali quelli offerti da un caf, all’assistenza legale, ad associazioni para-sindacali o sindacali del tutto ci sembra la chiave per offrire una copertura a tutto tondo a chi è impegnato nella difesa del proprio posto di lavoro.
Occorre ovviamente che in tali strutture compagni e compagne del nostro partito siano attivi e militanti e che esercitino un ruolo di unione delle vertenze, sull’esempio di esperienze quali quelle di Livorno e di Napoli.

            Riteniamo pericoloso ogni scivolamento che porti ad una “categorializzazione” dei lavoratrici e lavoratori, spesso preludio ad una divisione degli stessi: riteniamo lavoratori e lavoratrici tutte e tutte, tanto disoccupati e disoccupate, quanto precari e precarie, sino ovviamente a lavoratori e lavoratrici dotate di contratti più o meno stabili.
La divisione è il dispositivo di cui si serve la classe padronale per separare lavoratrici e lavoratori dalle esigenze assai simili, inserendo loro in compartimenti stagni poco comunicabili.
A tal proposito in Puglia abbiamo assistito, durante il passato decennio che ha visto il centrosinistra al governo, ad iniziative “volte a contenere la disoccupazione giovanile” quali “Bollenti spiriti” e “Ritorno al futuro”.
Oltre a non aver ottenuto tale effetto, tali bandi, sostanzialmente volti a garantire uno start up a nuovi modelli di impresa, hanno reso egemonico il fatto che gli unici lavori degni di finanziamento e di attenzione tanto da parte dei futuri lavoratori e lavoratrici quanto da settori sempre più ampi della politica siano quelli che affiancano il fattore creatività a quello della novità.
Ciò determina una squalificazione, agli occhi dei e delle giovani, dei lavori legati a settori di forte rilevanza locale quali quelli legati al primo e al secondo settore, avvertiti nel senso comune come lavori “inferiori”, poco remunerativi e scarsamente gratificanti.

            Riteniamo inoltre che il ragionamento portato avanti dai teorici e dai difensori del reddito di cittadinanza e di esistenza, rischia, come dimostrano anche esperienze storiche quali quelle del pacchetto di riforme Hartz IV promosso dal governo Scrhoeder nei primi anni 2000, di essere controproducente per le lotte dei lavoratori.
In quel caso il reddito è stato infatti affiancato dai cosiddetti mini–jobs e midi–jobs, lavori part-time privi di regolamentazione a favore dei lavoratori. La “garanzia” di un reddito minimo mensile percepito non ha avuto l’effetto sperato di essere una stampella per le lotte dei sindacati, bensì ha offerto il fianco ad una maggiore precarizzazione del lavoro e all’offerta di salari inferiori da parte delle aziende.
Tale modello è quello su cui i giuslavoristi vicini al governo vogliono lavorare, onde introdurlo nell’agone politico, incalzando le proposte di instaurazione di un reddito minimo promosse dalla sinistra radicale e da ultimo dal Movimento 5 Stelle.

            Volano per le lotte potrà invece tornare ad essere invece la linea politica, dal nostro partito sostenuta in passato, della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario: la disoccupazione in questo modello di gestione della società è ormai un dato strutturale e funzionale alla guerra tra poveri, nonché a nuovi contratti in cui diritti garantiti e salari percepiti risultano essere sempre più bassi.
Oggi giorno inoltre lavoratrici e lavoratori passano presso il proprio posto di lavoro quasi sempre più delle 8 ore di lavoro giornaliere “classiche”.
Registriamo invece, accanto a questo dato, una crescita cospicua dei profitti delle aziende, che necessitano essere distribuiti in maniera più equa tra le lavoratrici e i lavoratori che impiegano se stessi nella produzione di tali ricchezze.
Alla riduzione dell’orario di lavoro potrà accompagnarsi una liberazione di tempi ed energie che non solo potranno rendere migliore il livello di vita degli uomini e delle donne, ma anche permettere loro di poter mettere il proprio tempo di vita liberato a disposizione delle altre e degli altri, impegnandosi politicamente.

            “Lavorare meno e lavorare tutti” deve tornare ad essere lo slogan di un partito e di una giovanile che vogliano essere pronte ad intervenire, oseremmo dire “senza tregua”, nei conflitti capitale – lavoro in corso nel nostro paese.

Tornare a non aver paura di chiamare padrone colui che opprime lavoratori e lavoratrici, a non aver paura di dire la nostra in ogni contesto lavorativo, usufruendo di strumenti vecchi e nuovi per sostenere le lotte e le vertenze, strada per strada, fabbrica per fabbrica.

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